TACCUINO: Laccadive e Bella Ciao

Una cara amica, Carla, mi ha raccontato il suo ricordo di una vacanza di quasi 50 anni fa. Fu un viaggio, praticamente improvvisato, in un arcipelago dell’Oceano Indiano che allora non conosceva il turismo. Ma anche oggi le Laccadive sono una meta non ancora coinvolta nel turismo di massa. Il posto ideale dove staccare davvero la spina e lasciarsi trascinare in un viaggio indietro nel tempo.

Il racconto di Carla: le isole Laccadive negli anni Settanta

Negli anni Settanta, durante le vacanze di Natale, con mio marito e un gruppo di amici tutti appassionati subacquei, abbiamo fatto molti viaggi nel mari tropicali, in giro per isole o in barca. Erano sempre posti paradisiaci, allora ancora fuori dai circuiti turistici.

Nel 1973 avremmo dovuto essere i primi ospiti di un piccolo villaggio sulla costa del Mar Rosso, sotto Hurghada, nota per la bellezza dei fondali marini. Però gli amici che avevano organizzato e costruito il piccolo villaggio, poco prima della partenza, ci avvertirono che in realtà gli alloggi non sarebbero stati pronti in tempo.

Ma nessun problema! Avevano già previsto un’altra meta: le Laccadive, un arcipelago dell’Oceano Indiano, al largo di Kochin, che non era stato visitato da nessun occidentale da oltre cento anni. Nessun abitante aveva perciò mai visto un bianco.

Il governo indiano voleva capire se sarebbe stato possibile creare di quelle isole dimenticate un polo turistico, e noi saremmo state le cavie di questo esperimento.

Come rifiutare un’avventura come questa?
Quindi partimmo per l’India, in aereo fino a Mumbai (allora era chiamata ancora Bombay), poi in macchina verso sud per molti chilometri, lungo la costa occidentale,
attraverso un’infinità di piccolissimi centri abitati, fino a Kochin. Da lì, ci saremmo imbarcati per le Laccadive con il postale che una volta alla settimana faceva il giro a portare merce alle isole.

Il postale era  una vecchia nave risalente ai tempi del colonialismo inglese, con due grandi cabine: una per le donne, l’altra per gli uomini; sul ponte casse di merce, bambini, capre e galline.

Dopo due giorni di navigazione con varie soste, arrivammo alla meta. Ci aspettava un’isola come quelle raccontate dai navigatori dei secoli passati: nessun porto, solo palme e capanne e alcune canoe che vennero a prenderci per portarci a riva. Il capo villaggio ci aspettava circondato da tutti gli abitanti.

Ci portarono subito in un grande edificio in legno al centro del paese, sormontato da un tetto di paglia. All’interno c’era un’unica grande sala, dove venimmo cerimoniosamente accolti, servendoci, con grande rituale di tradizione locale, deliziose noci di cocco, riempite di latte di cocco condito e piccole prelibatezze.

Quella sala, ci dissero, era il tribunale delle isole, mai utilizzato per l’assenza di crimini da giudicare. Lì venne sistemata una coppia di nostri amici e i loro due figli. Gli altri sarebbero stati negli uffici del tribunale, arredate con letti e qualche sgabello di bambù costruiti per l’occasione.
Non erano presenti servizi igienici, ma il capo villaggio aveva fatto costruire, su indicazione dell’ente turistico indiano, due wc e due docce, proprio nel bel mezzo della piazza, sotto gli occhi straniti degli abitanti che non capivano a cosa servissero.

I locali avevano finestre, ma senza vetri e senza tende. Ogni due per tre, il viso curioso di qualche bambino sbucava, sorridente e divertito, nonostante i pareo che cercavamo di appendere a mo’ di tenda, per un minimo di intimità. Dopo qualche giorno, sempre gentili e premurosi,  fissarono con qualche chiodo della carta di giornale all’intelaiatura.

L’ente del turismo, vista l’assoluta assenza  di alberghi e ristoranti, aveva pensato di farci accompagnare da un cuoco, partito con noi da Kochin, ed equipaggiato con due pentoloni enormi, moltissime spezie e un sacco di cipolle. Per il resto avrebbe dovuto arrangiarsi con quello che l’isola aveva da offrire. Pochissimo.

Il povero cuoco era nepalese, non parlava altro che la sua lingua, ed era tristissimo perché per  la prima volta veniva allontanato dal suo villaggio e dalla sua famiglia, e oltre a tutto soffriva il mal mare!
Ogni mattina partiva con noi col suo pentolone, riempito di carote e verdure, un po’ di riso o patate e sedeva sul bordo della barca che ci avrebbe portato sul reef, con aria afflitta, e lo sguardo perso sul mare e l’orizzonte lontano.
Soffrivo il mare anch’io, così mi sedevo di fianco a lui, per condividere la sofferenza e cercare di scambiare qualche parola.

Arrivati a riva all’isolotto previsto per quella giornata, sbarcavamo le nostre attrezzature da sub, il cuoco con il pentolone e ognuno partiva per il suo giro di esplorazione o pesca.
Il cuoco nel frattempo accendeva un fuoco sulla spiaggia, riempiva il pentolone d’acqua, spezie e verdure e man mano che qualcuno arrivava con un pesce, il cuoco lo puliva e lo buttava a cuocere.
Alla fine della mattina, all’ora di pranzo, affamatissimi, sotto un sole  cocente ci aspettava una zuppa bollente, ma deliziosa. E niente altro se non qualche cocco trovato per terra.
Vita molto spartana, dunque, ma è uno dei ricordi di vacanza più belli che ho.

Al pomeriggio, al ritorno dal giro in barca, passeggiavamo per il villaggio, gli abitanti ci guardavano, sorridevano e, senza mai importunarci, facevano tranquilli la loro vita.
I bambini, bellissimi, correvano davanti a noi con  i loro pareini colorati e stinti, ridendo e gridando. La mattina avevano la scuola, al pomeriggio erano liberi e felici.

La sera del 31 dicembre il capo villaggio ci invitò tutti per una grande festa, in piazza
attorno a un fuoco con tutti gli abitanti, compresa la maestra di scuola e i suoi alunni.
Dopo cena la maestra invitò gli scolari a rappresentare un piccolo spettacolo organizzato per noi.
Finito lo spettacolo, tenerissimo, la maestra – personaggio importante che sapeva un po’ di inglese – ci disse che adesso toccava a noi rappresentare qualcosa: una scenetta, della musica, forse un canto?

Noi allibiti, impreparati, cercammo di schermirci, ma non ci fu niente da fare: era un atto di ringraziamento dovuto e se lo aspettavano. Dopo una lunga confabulazione, scoprimmo di poter produrre come spettacolo collettivo soltanto una canzone.
Moderna? di montagna? difficle mettersi d’accordo. Finalmente uno del gruppo ebbe un’idea: cantiamo Bella Ciao! Tutti d’accordo,  partì il coro alla bell’e meglio e venimmo applauditi con molto calore da tutti.

Al pomeriggio del primo dell’anno,  facemmo la nostra solita passeggiatina fra le capanne, con la staffetta dei bambini che correvano come sempre festosi intorno a noi. E che cosa cantavano a squarciagola? Bella Ciao, dall’A alla Z!  e con un’ottima pronuncia!
La maestra aveva registrato il nostro canto e si erano esercitati.

Così, ancora adesso, sono sicura che, inspiegabilmente per chi non conosce questa storia, in un’isola sperduta dell’Oceano Indiano ci siano degli abitanti che cantano
Bella Ciao. Forse senza sapere perché, né che cosa vuol dire, ma la cantano tutta.
E io ne sono contenta.

 

 

La foto di copertina è tratta dal blog Il buio oltre la siepe, dove potete trovare anche alcune informazioni per un viaggio nelle Laccadive di oggi.

TACCUINO: L’isola di Amantanì, nel lago Titicaca

Certe cose partono da lontano, spesso dalla nascita o giù di lì. Forse avrei dovuto capire già da quello che disegnavo sui banchi di scuola alle elementari (navi e aerei in movimento verso lontane destinazioni, motociclette attrezzate per lunghi viaggi…) che non mi sarei fermato in quel piccolo paese sulle rive del lago.

La cosa che più mi affascinava era il mondo: mentre disegnavo mezzi di locomozione ero già partito anch’io… Invece di andare a giocare a calcio al campetto dell’oratorio, seguivo tracce e profumi nei boschi con il mio fido Dick. Invece della raccolta Panini del campionato di calcio, collezionavo le figurine de ‘Il mondo in casa’, oltre a tanti, tanti francobolli.

Naturalmente, con il passare degli anni, i confini delle mie esplorazioni si allargavano lasciando spazio a orizzonti via via sempre più ampi e affascinanti: prima le Alpi, Venezia, il sud d’Italia, compiuti i diciotto anni via via la Grecia, la Turchia, il Marocco, le Canarie, fino al grande sogno: l’America Latina. Partenza il giorno prima di Natale…

Portavo con me:

  • un biglietto Aeroflot valido un anno
  • il passaporto
  • un sacco a pelo
  • un diario
  • delle matite colorate
  • un po’ di denaro guadagnato raccogliendo uva e mele in Trentino
  • un maglioncino di lana colorato fatto a mano
  • un piccolo portafortuna regalatomi da una amica
  • e i miei vent’anni.

Verso il Titicaca

L’isola di Amantanì, situata sul versante peruviano del lago Titicaca, non sapevo nemmeno che esistesse… Ci sono arrivato così, portato dal vento, che ha avuto inizialmente la forma di un TIR che, sulla strada Panamericana, andava da Lima ad Arequipa. Avevo fatto l’autostop e mi sistemarono in modo precario sopra alcuni bidoni di olio della Esso.  Il vento mi ha poi trasportato su un trenino che arrampicava lentamente per tutta la notte fino ai quasi 4000 metri dell’altopiano, riscaldato solo dal calore umano di campesinos che masticavano foglie di coca, oltre ad alcune galline e una capra.

Che emozione l’arrivo all’alba: il blu profondo dell’acqua e quello del cielo che si toccavano. Un lago appena sotto il cielo, questo è il Titicaca.

Un café con leche caliente nella piccola cittadina di Puno e, senza indugiare un momento, ero già su un barchino che collegava le minuscole isole del Titicaca. Avevo fretta di conoscere questo mondo limpido e pulito, rarefatto come l’aria che si respirava.

Dopo aver attraversato lentamente gli isolotti galleggianti degli Uros, gente che vive di pesca su canne di totora intrecciate, il barchino si perse nel blu fino ad arrivare a Taquile, l’isola più conosciuta dove ogni anno si svolge la grande Fiesta del Sol.

Lungo il tragitto Juan, un campesino seduto al mio fianco, mi salutò in quechua e poi, in spagnolo fortunatamente, mi chiese se volevo andare a casa sua, ospite della sua famiglia. Naturalmente ne fui stupito e felice. Così, invece di scendere a Taquile, proseguii insieme a lui verso un’isola più piccola e ancora poco frequentata dai turisti: Amantanì.

Amantanì

L’isola sembrava la cima di un monte roccioso emerso dall’acqua. Semplici casette con il tetto di paglia e lamiera erano sparse qua e là. Piante di eucalipto isolate o a gruppi seguivano i sentieri stretti affiancati da muri di pietra creata da sassi impilati per far spazio a minuscoli appezzamenti di terra dove si coltivavano patate e mais. Tutto attorno il blu del lago contornato in lontananza dalla sagoma di montagne innevate. Un paradiso.

Juan aveva una famiglia stupenda: una moglie, tre figli e due anziani genitori. Incrociai i loro sorrisi che da allora mi accompagnarono per i  mesi seguenti. Mesi che non dimenticherò mai, vissuti esattamente come vivevano loro.

E io non desideravo altro: alzarmi all’alba per zappare la terra, mangiare nel campo patate e mais da intingere nell’argilla, celebrare le feste della comunità, ma anche lottare nella notte contro le pulci che non davano pace, giocare con i piccoli nel recinto degli animali… Intanto le pagine del mio diario si arricchivano di descrizioni e disegni, disegnavo ovunque, anche un enorme pavone colorato sulla parete della mia piccola stanza.

Ma sicuramente la cosa che più mi appassionava erano le esplorazioni. L’isola era piccola e potevo arrivare ovunque. Percorrevo i suoi sentieri da villaggio a villaggio e poi seguivo quelli più impervi che portavano sulla cima sacra del monte: da lì si dominava ogni cosa. Osservavo ogni minimo dettaglio, ascoltavo ogni suono di quella terra, di quella natura straordinariamente in armonia con l’uomo.

Dopo due mesi di mais e patate il mio stomaco però si ribellò e mi trovai a terra a contorcermi dal dolore. L’anziana madre di Juan corse nel campo e in breve tornò con un mazzo di erbe selvatiche: preparò una tisana amara che subito calmò gli spasmi. Ma era venuto il momento di partire.

Il giorno prima della mia partenza mi trovavo sulla cima del monte: volevo abbracciare e ringraziare con lo sguardo e con il cuore quella terra meravigliosa. Trasportato dal vento, cominciai a sentire il suono costante delle quene, delle zampogne e dei tamburi. Uomini e donne vestiti con i colori più belli della festa, in fila indiana, salivano suonando e ballando e cantando dai diversi villaggi per confluire sulla cima del monte sacro dedicato a Pachamama, la Madre Terra. Senza saperlo, mi trovai ad assistere alla festa propiziatoria del buon raccolto in cui, da secoli, si portano doni e rispetto alla Natura, madre di ogni cosa.

Vent’anni dopo mi arrivò una lettera con una foto: il disegno di un enorme pavone colorato. Julio, il figlio più piccolo di Juan, alla morte del padre trovò in un cassetto il mio indirizzo e mi scrisse dicendomi che qualcosa di me era rimasto sull’isola. Gli anni, il tempo, i traslochi mi hanno fatto smarrire quella foto, ma continua ad accompagnarmi il ricordo di quei mesi incredibili in mezzo al lago Titicaca.

volo condor

uaua

condor sogno

I disegni sono di allora, di un me ventenne, circa quarant’anni fa.